Libertà: il centro è la vera risorsa
Ho riconosciuto l’aspirazione alla libertà molto presto, mi ha accompagnata per tanti anni. Nella fase dell’adolescenza si esprimeva nella ribellione a mia madre e al suo controllo. Era in particolare la libertà da lei che volevo, immaginavo la mia vita lontano dalla sua presenza soffocante, come un paradiso di godimento e di felicità.
Crescendo, anche se fisicamente lontana da lei, portavo in me la storia, o meglio l’interpretazione di un vissuto che continuava ad esistere non solo a livello di memoria, riguardava le emozioni, il sentire, il piano energetico, il modo con cui mi relazionavo, comunicavo, riguardava tutti gli aspetti della mia realtà. Portavo dentro mamma e papà i loro valori, le credenze, il loro senso del dovere, i comportamenti, le abitudini, senza che me ne accorgessi. Anzi avevo l’impressione di essermi sganciata da loro prendendo strade diverse, per certi versi, opposte.
Più tardi mi sono resa conto che l’espressione del mio essere era bloccata, non mi conoscevo veramente. La libertà era ancora lontana nonostante in apparenza le mie azioni fossero libere da mamma, dal suo controllo diretto e da papà.
Incontrare il lavoro sulla “Libertà di essere se stessi e il giudice interiore” ha portato una grande trasformazione nella mia vita personale quotidiana e professionale. La comprensione che il condizionamento ricevuto nell’infanzia, dall’ambiente famigliare, crea una fondamentale separazione da se stessi, da parti rimosse, allontanate dalla coscienza che rimangono imbrigliate e inconsce, mi ha dato modo di interrogarmi. Valorizzare il mio sentire, qualunque fosse, in modo da percepirmi dalla prospettiva della verità invece che dalla prospettiva del giudizio, della negazione e limitazione ha accelerato un cambiamento profondo che era già in atto.
La prospettiva della verità è stato un passo decisivo verso me stessa, lo è per chiunque voglia intraprendere e proseguire il viaggio di ritorno dal condizionamento alla libertà. Nei corsi che l’Istituto IBI offre, uno dei pilastri fondamentali della metodologia del lavoro è: l’accettazione.
Accettare ciò che si manifesta è apertura, è uscire dal controllo che il giudice opera, attraverso giudizi di non accettabilità, tenendo così relegati nell’inconscio, sentimenti, emozioni, desideri.
Quando ho iniziato a fare inquiry e aprirmi mi sono accorta che la mia femminilità era stata penalizzata nella sua manifestazione, il mio giudice, papà, la considerava una debolezza. D’altro canto, mia madre mi aveva dato modelli di femminilità che corrispondevano a privazione, scarsità e sacrificio, il che era un’ulteriore motivo per assumere comportamenti che la negavano.
Scoprendolo ho visto che la mia vita era sforzo continuo per dimostrare che ero forte, all’altezza delle situazioni e ho sentito tutto il dolore che questo mi dava, che era lì da qualche parte insieme alla frustrazione per essermi allontanata da una qualità così preziosa per me, in quanto donna.
E’ vero che aprire fa emergere dolore. E’ un avvertimento che il giudice usa spesso per controllare l’accesso all’inconscio. Di solito le prime fasi sono le più dolorose. E’ altrettanto vero che l’espansione della consapevolezza porta con sè le risorse che sostengono nella scoperta, come compassione, amore e fiducia. Ciò che sperimento e vedo continuamente accadere a tante persone è che la prospettiva della verità riduce progressivamente, la distanza tra chi crediamo di essere e chi siamo veramente, fino a portarci nella gioia e nel rilassamento dell’esperienza diretta di noi stessi, così come siamo. Questa per me è libertà.
Il condizionamento non è qualcosa di statico che appartiene solo al passato, continua a ripetersi e riaggiornarsi nel corso del tempo. Tutte le figure di autorità che incontriamo, compresi i maestri spirituali, vengono riadattate, inglobate nella nostra vita, creando un binario comportamentale limitante fondato sul “dover essere” e dipendenza.
Il giudice interiore fa il possibile per garantirci la sopravvivenza, per farci sentire al sicuro. Ci da parametri di accettabilità più o meno confezionati a seconda del momento, della persona di riferimento, per ottenere approvazione, amore, un senso di appartenenza, alla famiglia, alla società, alla comunità dei ricercatori spirituali. Finchè il nostro riferimento è il giudice interiore, con i suoi commenti, giudizi, valutazioni, lo vedremo anche fuori, proiettato su amici, famigliari, colleghi di lavoro, maestri e su chiunque rappresenti un ruolo di autorità.
Il nostro valore sarà in funzione di qualcun altro, non solo a scapito della nostra espressione vera e libera, che è un alto prezzo da pagare, bensì a scapito dell’esperienza fondamentale che “Io sono valore”.
L’auto-riconoscimento “Io sono valore” pone fine al conflitto interno sostenuto dal giudice e ricongiunge al nostro Essere, alle modalità spontanee che la nostra intelligenza intrinseca conosce per far fronte alle circostanze e funzionare nel migliore dei modi. Noto che sempre di più mi apro alla fiducia che ha preso un nuovo significato: sono in grado di esistere e sostenermi attingendo a risorse che si presentano nel momento stesso in cui sono necessarie.
E’ un percorso graduale che richiede presenza, perseveranza nel difendersi consapevolmente dal giudice e il coraggio di prendersi la responsabilità della propria vita momento dopo momento.
La responsabilità è un punto fondamentale dove molte persone rimangono bloccate a lungo. Hanno consapevolezza dei vari meccanismi, delle difese automatiche, delle compensazioni, della storia personale e delle sue influenze sul presente, riconoscono gli attacchi del giudice e relativi sintomi eppure, non accade un tangibile cambiamento. Come mai?
L’abitudine a vivere nel circolo vizioso dove il giudice interiore ci mette è profondamente radicata in ciascuno di noi, è il territorio che maggiormente conosciamo e viviamo, nonostante i limiti, la sofferenza, la mancanza di piacere e valore che ne viene. L’attaccamento e l’identificazione con la storia personale, con l’immagine di sè che si è costruita nel tempo, sono gli ostacoli con i quali fare i conti. Il bambino, per quanto accentratore di attenzione, in quanto bisognoso di cura e affetto, è nella dipendenza totale dai genitori. Uscire da questa dipendenza ci fa diventare adulti e responsabili di noi stessi.
La responsabilità richiede uno spostamento fondamentale da fuori a dentro: dal giudice alla propria energia con l’intenzione ferma di volerla mantenere viva in modo da sentirci VIVI.
La sopravvivenza è fatta di strategie per non sentire, è monotona, ci taglia fuori dall’esperienza immediata della realtà, è castrazione dell’energia vitale. Nello stesso tempo, se la guardiamo dalla prospettiva del bambino, comporta una serie di vantaggi in termini di:
- fare contenta mamma e/o papà;
- non prendersi il rischio;
- avere un’identità definita;
- poter fare la vittima di qualcuno;
- cercare riconoscimento fuori.
Nessuno di noi è immune da questo, quel bambino che siamo stati è qui, non ha importanza l’età di oggi, la reazione automatica a qualunque situazione è pronta e precisa. E’ necessario praticare costantemente la difesa consapevole dal giudice, non solo averne coscienza a livello mentale.
La pratica è allenamento continuo, è stare all’erta, è non permettere al giudice di manovrarci, di prendere il posto della nostra volontà.
La pratica è allineamento, è riconoscere e attuare i nostri progetti è entrare nella vita quotidiana con integrità, amore, con passione. Richiede coinvolgimento diretto, che spezza l’abitudine, il comodo, lo scontato. Per questo non è facile, per questo a volte ci blocchiamo e preferiamo sopravvivere piuttosto che rischiare.
L’input alla difesa consapevole dal giudice non può venire solo dall’applicazione di una tecnica imparata leggendo un libro o partecipando a un corso. E’ dal centro del nostro essere che troviamo la forza di essere noi stessi, la tecnica è un mezzo. E’ dall’integrità del centro che nasce il ruggito che spezza il condizionamento, non dalla tecnica in sè.
Conoscere il giudice interiore da dove nasce e le sue implicazioni sul presente, toglie di mezzo uno dei più grandi ostacoli alla realizzazione di sè. Apre la via di contatto con il centro, e da qui, accade una risposta piena, presente, sana che non ha nulla di scontato, qualunque essa sia, riconosce e attua chi siamo veramente. Da questa prospettiva anche le tecniche acquistano un nuovo posto e significato in quanto diventano il mezzo per entrare nel centro.
Tutte le tecniche di centratura, radicamento, meditazione che coinvolgono il corpo, non sono solo posture fisiche, richiamano l’energia verso l’interno, cambiano immediatamente il focus da fuori a dentro, da lì a qui. E’ l’intenzione di essere noi stessi che coltiviamo e l’intenzione ci da sostegno e la direzione verso il centro.
Nutrendo il centro, il giudice che sta alla porta perde potere e diventa sempre più mansueto, perde aggressività e anche il nostro rapporto con lui e con chi rappresenta si trasforma.
Il Centro è la vera risorsa.
Articolo di Karuna pubblicato in: “La libertà di essere se stessi: conflitto tra dovere e essere” di Avikal Costantino ed: Tecniche Nuove 2013.